Parole che vanno lontano

Ho provato a incorporare qui la presentazione. Non si riesce.

Però se cliccate trovate un lavoro di introduzione al WRW. Provate. Se funzionasse ne aggiungerò altri.

Vorrei rendere di nuovo attivo questo piccolo sito.

Ci proviamo

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Form-azione

Da tanto non scrivo. Oggi approfitto del lungo viaggio in treno di ritorno da Città di Castello. Ho tenuto lì appunto un corso di formazione. E di questa vorrei scrivere anche se poche cose. Vado con ordine

  • Perché mi piace così tanto? Perché, come in classe, mi diverto molto. Incontro colleghi, scambio idee, conosco progetti, persone, realtà diverse.
  • Come conduco i corsi? Tenendo conto che devo sempre rispettare chi ho davanti. I colleghi non sono mai tabula rasa. Hanno alle loro spalle studi, didattiche sperimentate, idee, lavoro. Cerco di non pormi mai come una che sa ma come una che sperimenta e che condivide.
  • Ma allora non sono esperta? No. Non sono esperta di nulla. Ho letto molto, però, ho studiato e messo in pratica il mio modo di applicare il WRW, di adattarlo alla mia esperienza personale. Questo condivido con gli altri.
  • In che modo condivido? Lascio sempre tutto il materiale a disposizione. Non sono gelosa di nulla, non mi interessa essere la prima o essere sempre citata. Credo che crescere insieme sia l’unica via. Per crescere occorre scambiare idee e lavoro. E anche provare ad adottare punti di vista diversi, pure se non li senti tuoi.
  • Faccio fatica? Sì moltissima. Esco stremata. Ogni volta mi rimetto in gioco, rivedo il materiale, cerco di costruire relazioni, mi espongo personalmente.
  • Guadagno? Poco, quasi niente. Quest’anno causa inesperienza mia come commercialista di me stessa è finito tutto in tasse.
  • Continuerò a farlo? Certo! Mi affascina questo lavoro, mi affascinano gli incontri, i volti, le storie, gli scambi.

Sono in form-azione perenne. In pratica.

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Il potere della parola.

Nell’ormai  lontano 2013, alla libreria Feltrinelli di Savona è avvenuto per me qualcosa di fantastico. Fra gli scaffali, con i libri e l’odore di carta nuova stampata, i miei alunni hanno ascoltato leggere ad alta voce, da un attore, un racconto breve di Antonio Ferrara. Subito dopo, da questo racconto, hanno tratto tre parole, le prime tre che sono venute loro alla mente. E quelle parole trascritte su cartoncini colorati sono state appese ai ripiani, colmi di altre parole,  intorno a noi. Chiunque fosse entrato in quel momento in libreria avrebbe visto parole appese fluttuanti nell’aria, e, sotto, seduti per terra, ragazzi che, sul loro Ipad, in silenzio assoluto, stavano scrivendo un breve “pezzo” con modalità “quick write.” Subito dopo i pezzi sono stati letti ad alta voce e immediatamente postati sulla pagina fb creata per l’evento “Reading ad alta dispersione”.

Ecco questo è quello che a scuola le parole sono in grado di  generare. Le parole a scuola esercitano e mettono in atto un forte potere creativo che, in questo caso, parte dall’oralità e, passado dalla scrittura, ritorna alla oralità per essere poi disperso del web. Parole di voce, parole di carta, parole digitate, parole disperse e inviate nel mondo. Ma non si tratta in realtà solo di questo.

Sono insegnante di Italiano da molti anni ormai e so bene quanto e quale potere abbiano le parole e le narrazioni ad esse collegate. Il potere di guarire ma anche di far male, il potere di sedurre , il potere di ingabbiare , il potere di proteggere e quello di dare vita ad un mondo, dare un nome alle cose e renderle riconoscibili.

Nel suo recente e approfondito libro Michele Cometa afferma che “Il comportamento narrativo ha di fatto dato forma e fortemente condizionato lo sviluppo delle capacità cognitive dell’Homo Sapiens” e  che” dunque studiare la narrazione significa avere accesso al funzionamento e alla struttura della mente umana e con essa anche della conoscenza del sé” (cfr. Michele cometa “Perché le storie ci aiutano a vivere”, Cortina , 2017). Se partiamo, anche solo superficialmente, da questo assunto di base molte considerazioni si aprono davanti a noi. Nella metodologia del  Writing Workshop che io ormai seguo da anni tutto questo non solo è ben chiaro, ma anche schematizzato e ricondotto in una cornice pedagogica molto precisa. Le parole costruiscono le storie; le storie, a loro volta, dette, lette o scritte sono quello che ci permette di sopravvivere e di qualificarci come esseri viventi, come uomini e donne, scolari e professori.

Jerome Bruner ha scritto che: ” Il talento narrativo contraddistingue il genere umano tanto quanto la posizione eretta o il pollice opponibile…Nessuno di noi conosce la precisa storia evolutiva della sua origine e sopravvivenza. Ma quel che sappiamo di certo è che questo talento è irresistibile, in quanto mezzo per comprendere l’interazione tra gli uomini.” Nella mia ora di lezione il potere che le parole mettono in atto è esattamente ciò: intessono relazioni tra esseri viventi. Il mio lavoro è, a ben vedere, solo questo: da un lato fornire strumenti perché ciascuno possa provare l’ebbrezza di creare mondi con le proprie parole, dall’altro fornire altri strumenti perché ciascuno possa trovare quel potere fascinatorio e insostituibile anche nelle parole lette e scritte da altri.

Io dico sempre che a scuola faccio teatro. E’ vero. Intendo che metto in scena delle azioni deliberatamente prevedibili  in cui poi l’imprevedibile può avere luogo. In questo mettere in scena, il potere che emana la mia parola è evidentissimo. Proprio ieri mi è capitato, durante una lezione, di raccontare il mio incontro con un ghepardo cucciolo: in una classe davvero complessa e molto difficile da gestire di prima professionale è calato ( per pochi minuti) il silenzio.  Cosa succede in pratica? Se io mi metto in gioco, in prima persona, ho il potere con la mia parola narrativa di creare attenzione e pathos. Ho quindi un potere enorme e me ne rendo conto. Gestisco attimi di vita che magari cambieranno per sempre l’incontro con la realtà scolastica dei miei studenti. Nella metodologia che seguo, infatti, aprirsi all’altro, e mettersi al pari dei ragazzi scrivendo “pezzi” con loro, è molto importante. Vuol dire dare la prova vivente che la mia parola viene spesa anche per loro, che io ne uso le forme per comunicare a loro e insieme a loro. Nella parte di laboratorio chiamata share time ( ultimi 5 minuti) si condivide sempre ciò che abbiamo scritto. Chi vuole occupa la sedia dello scrittore ( dimostrazione materiale  che la parola ti consegna un potere) e legge ad alta voce un suo pezzo o un parte di esso. Dalla condivisione nasce il potere di affidare la parola agli altri che possono, a loro volta, renderla propria e poi restituirla in altro modo, in altre situazioni. Nascono i feedback sulla scrittura che aiutano a rivederci come autori e ad attivare un processo di metacognizione.

In classe io leggo sempre un libro, scelto insieme, ad alta voce. Non importa se non tutti seguono. Aidan Chambers  nel suo saggio “ The reading circle” ci suggerisce che esistono tre stati d’animo adulti per accostarsi alla lettura : leggere per il proprio passato familiare, leggere per il presente, leggere per il futuro possibile. Ecco io cerco di attivare almeno uno di questi  stati d’animo per condurre i ragazzi alla scoperta del loro essere lettore. “Gli studi sul funzionamento della psiche” dice sempre Chambers ”hanno dimostrato come sia impossibile leggere una qualunque cosa, senza sperimentare una qualche forma di reazione”. Ecco il potere della parola letta.  Sempre seguendo l’autore, quindi, a cambiarci come persone non sono le storie vissute ma le storie che noi ci raccontiamo intorno ad esse. E le storie di noi che ricreiamo attraverso quelle degli altri. Ecco perché il potere della parola letta e scritta è fondamentale così come lo è fornire ai ragazzi ampie e varie opportunità di sperimentare l’incontro con entrambe. Nulla come la parola costruisce il reale e ci fa entrare a far parte di esso.

Io sento forte questa responsabilità nelle mie classi e tutto ciò che faccio come docente in fondo, non è altro che lavorare sempre sulla parola. La maggior parte di noi non riesce a dare un senso  o un ordine alla sua vita o alle sue esperienze finché non ha tradotto questa in scrittura personale o la ha ritrovata nelle parole scritte da altri. Tutti abbiamo sperimentato come scrivendo spesso le idee si chiariscono e come mentre l’inchiostro dà forma alle lettere sul foglio, subito altre parole nascono nella nostra mente e ci si aprono davanti mondi diversi e altre prospettive. Tutti i lettori forti hanno sperimentato la meravigliosa sensazione di cadere dentro alle pagine lette e di navigare fra le lettere scritte quasi come se esse fossero state scritte per noi.

In questo senso davvero possiamo affermare che le parole sono potenti, creano e motivano il nostro comportamento, hanno infine un potere “magico”

Perchè io dovrei o potrei negare a tutti i miei studenti, anche solo per poco, di poter sperimentare questa meraviglia? Esistono studi svolti in California che dimostrano che a cinque anni bambini cresciuti in un ambiente linguistico povero hanno ascoltato 32 milioni di parole in meno rispetto a bambini del ceto medio. Ma il concetto di word poverty va oltre: in un’altra ricerca emerge che  i bambini di tre anni cresciuti in contesto di povertà linguistica usano meno della metà delle parole già impiegate dai loro coetanei più fortunati. ( cfr Marianne Wolf “Proust e il calamaro. Storia e scienza del pensiero che legge” 2009). Io mi trovo a lavorare in un contesto scolastico dove i miei studenti sono quasi tutti provenienti da ambienti simili e da storie di vita pesanti e difficili. Già alla loro giovane età hanno vissuto esperienze che spesso nessuno di noi (mi auguro) vivrà mai nella sua  vita. Allora lì, in quel mio essere docente, la parola e il suo potere prendono un senso davvero forte. Devo per forza fare i conti con quel potere, gestirlo, organizzarlo, restituirlo. Se i ragazzi scrivono di loro in una poesia o ritrovano qualcosa di loro in un testo per me è una grande vittoria. Sono sicura che il mio sarà stato un lavoro in qualche modo utile. Il potere della parola restituisce un senso alto e profondo al mio lavoro.

La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola.” E’ una citazione di Don Lorenzo Milani imparata da mia madre che cerco di non dimenticare.

Eccolo in carne ed ossa il potere della parola tramandata dal passato, potere delle parola che si fa vita oggi, il potere di quelle parole che, nella mia ora di lezione, appendiamo ai muri sui cartoncini colorati. A volte cadono, i cartoncini,  e gli studenti ci rimangono male . Come gli haiku appesi per la giornata mondiale della poesia a dei fili di lana tesi tra le pareti dell’aula. La bidella puntualmente li toglieva e loro li raccoglievano e riappendevano Un gesto rituale delle nostre mattinate, perché la parola è anche questo: sa essere così potente che ragazzi di 17 anni la raccolgono e la preservano dall’incuria degli altri.

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Martin Lutero e l’espositivo

Cosa c’entra il monaco agostiniano delle 95 tesi con la tipologia testuale citata? Apparentemente niente. Ma. Ma dopo 8 anni di WRW ho capito che, alle superiori, se voglio applicare il WRW e nel contempo ricavare il maggior rendimento possibile dai ragazzi devo unire le due discipline: storia e letteratura, lettura e scrittura. Così lavoro dall’anno scorso e ancora di più da quest’anno. Una strada che mi sembra sempre più centrata e più chiara man mano che procedo.

Ecco allora che abbiamo affrontato la storia per scrivere noi un testo espositivo, impresa abbastanza complessa ma gestibile anche nel mio istituto professionale. Se devo studiare su un testo scolastico studio in realtà su un testo espositivo, che informa, espone, fornisce notizie da apprendere. Io ho pensato che avrebbe funzionato meglio il contrario. Il testo espositivo ( in ogni sua parte) deve essere costruito dai ragazzi. Le notizie vengono fornite da me leggendo ad alta voce un manuale che ho comprato dopo la segnalazione della mia collega Tonia La Manna. Si tratta di “Breve storia del mondo ” di E. Gombrich. In più ho sempre lasciato ai ragazzi la possibilità di cercare notizie sul web con il cellulare.

In pratica faccio così: leggo ad alta voce il capitolo interessato e interessante. In questo caso quello sulla riforma e le guerre di religione. I ragazzi non hanno il testo davanti. Devono esercitare tutte le capacità di ascolto ed annotare. Usiamo lo schema a Y sostituendo alla voce ” impressioni” la voce ” accadimenti”. Molto meglio che fatti! Per due, tre sessioni procediamo in codesto modo.

Nel frattempo le ML affrontano le caratteristiche del l’espositivo: quest’anno ho lavorato molto sull’incipit, sul finale, sulla struttura del paragrafo ( scatola/ proiettili). Ogni ML il coinvolgimento attivo riguardava la scrittura di una parte piccola di espositivo storico.

Poi ho elaborato uno scheletro guida: molto utile per i ragazzi e anche per me. Una scelta vincente perché ragionare sulla struttura del testo è un elemento di prewriting importante. Credo anzi si sia rivelato faticoso, a volte molto faticoso, ma indispensabile.

Nelle sessioni di laboratorio, intanto, ognuno ha cominciato a impostare il suo testo di storia. L’argomento era scelto da me, ma la linea su cui lavorare, il tema centrale è stato scelto da loro. I titoli infatti sono stati tutti diversi perché ognuno ha messo in luce delle vicende quelli che più lo aveva interessato. Qui sono state fondamentali le connessioni. La religione che cosa è per me? Oggi si fanno guerre di religione? Ci vorrebbe oggi una “riforma” nella Chiesa? Il celibato dei preti è ancora un tema attuale? E la confessione? E la scomunica?

Un insieme di domande che ci ha impegnato per alcune lezioni a negoziare e cercare significato. Un significato della “storia” che la rendesse degna di essere studiata anche oggi.

Infine, dopo svariate bozze e questa volta una discreta revisione, hanno ultimato i loro pezzi e consegnati.

Una soddisfazione: non un incipit uguale ad un altro, non un titolo sbagliato, temi che emergono potentemente dai testi scritti, linee di lavoro ben definite. Ciò che più mi è piaciuto è stato l’uso di una scrittura assolutamente non formulare o stereotipata. Un alunno ha principato la sua conclusione chiedendosi cosa un monaco del XVI secolo potesse insegnare ancora oggi ad un ragazzo del 2018. Un altro ha parlato nell’incipit della potenza della religione sulle nostre vite. Qualcuno è arrivato a scrivere di sentirsi in fondo protestante apprezzando molto l’idea del rapporto intimo fra il fedele e Dio.

Ho dato valutazioni ( partendo da una rubrica condivisa in precedenza e concordata con loro) molto alte. Ognuno nel suo piccolo o grande ha scritto e lavorato. Ognuno ha detto la sua e ha costruito un testo coerente e coeso.

Il “nostro Martino” ( cit. dal testo di Luca) ha lasciato il suo segno anche in quarta manutentori.

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Y

Oggi ci siamo attivati per scrivere un racconto autobio. Non lungo eh? Ma un racconto ben fatto, dove emerga una voce, una idea, una storia.

Le storie piacciono a tutti dice Chambers. Le storie siamo noi. Siamo noi che parliamo di noi. Che tempo prezioso è quello in cui uno studente scende dentro se stesso ed esplora e capisce che conta perché anche lui ha una storia da scrivere!

E così abbiamo usato la Y della scelta dopo la lettura dell’albo di Sonia Maria Luce Possentini “La prima cosa fu l’odore del ferro”.

Abbiamo disegnato le Y delle nostre scelte che sempre si trovano ad un bivio. Scelte grandi o piccole, scelte di vita, di amicizia, di amore. Alcuni studenti che non scrivono mai ne hanno disegnato anche nove!

Che faremo ora? Scriveremo. Il diamante della scrittura già analizzato su testi mentor. Smontati e montati. Le ML sono pronte. Alcune già usate per il primo giro di pista. Altre nuove per un giro di pista più complesso. Dal memoir al racconto. Un bel saltino. Ci attendono le bozze. Ma abbiamo da parte anche liste di “incontri importanti” e almeno un attivatore grafico che non vi svelo.

Mentre lavoravamo oggi abbiamo anche fatto un sacco di connessioni con i personaggi delle letture dello scorso anno.

Coraggio seconda IPSIA!

Che avventura ci attende!

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Form-azione

Ho sempre creduto nell’accoglienza e nella condivisione. Se ci credi fanno parte di te e della tua vita. Non sono diversa da come sono a casa, in famiglia, a scuola. E nemmeno quando faccio formazione, sono diversa.

Da poco conosco questa avventura entusiasmante, ma mi piace tanto. Vedere gli occhi dei colleghi che si illuminano o sentire le domande che nascono, provare a far ricorso alla mia esperienza per rispondere mi rende felice.

Ovviamente l’esperienza non basta. Mi aiuta lo studio, profondo e preciso, mi aiuta il rispetto di ciò che ogni collega porta sempre con sé. Nessuno viene a conoscere il Writing and Reading come tabula rasa. Nessuno é neutro. Tutti hanno un bagaglio sperimentato e già acquisito.

La loro esperienza per me é sempre preziosa e mi piace valorizzatela e trarne io vantaggio. Ho un profondo rispetto di tutti perché so la fatica che costa mettersi in gioco. Sono anni che ci provo e spesso ho sbagliato ma ricominciato.

Non sono nessuno. Non voglio essere nessuno. Ma so di essere onesta nel profondo e di condividere con il cuore.

Lascio sempre tutto il materiale ai corsisti. Perché mai non dovrei farlo? É di tutti una volta che ne parli .

E così form-azione dopo form-azione mi azionò pure io, e cresco , e sto in pace, anche con me stessa.

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« Uova e parole vanno maneggiate con cura »

Il verso é di una meravigliosa poesia di Anne Sexton. Sulle parole. Continua così:”Una volta rotte non si possono riparare”. L’ho scelte perché in questi giorni in classe sto maneggiando parole. Per meglio dire sto aiutando i ragazzi ad entrare dentro un libro ( meraviglioso ) per trovare le parole di Gabriele Clima che ne è l’autore. E anche per trovare le loro parole, quelle nascoste, che nemmeno sanno di sapere. E sono tante.

Andiamo con ordine. Il libro è “La stanza del Lupo”. Racconta di rabbia. Di una rabbia ingestibile di un adolescente, pieno di vita e di pensieri potenti, ma sommerso dalla rabbia. Lo soffoca ‘sta rabbia. Lo assale, lo travolge.

Quanti miei alunni sono così? Tanti. Hanno dentro così tanta frustrazione che spesso non hanno altro strumento che spaccare con un pugno la parete dell’aula ( che è di carton gesso). Oppure la vedono la rabbia. In famiglia spesso, fra gli amici, a scuola. Ma non hanno parole per capirla e per difendersene.

Ho imparato che i libri servono per nominare le cose, anche quelle che non conosci. Così quando le hai nominate puoi parlarne, puoi affrontarle e vincerle se è il caso.

Leggere ad alta voce il libro di Gabriele in classe sta facendo miracoli. Occhi che spuntano da sotto i cappucci delle felpe di quelli che di solito dormono. Domande a non finire. Ipotesi sul senso. Previsioni sullo sviluppo. Organizzatori grafici completati e arricchiti in autonomia. “Ma prof… per me Nico qui…” “Ma prof… in casa mia..” “Ma prof… Leo che amico è? ” e via di seguito.

Attendono con ansia la puntata successiva. E ogni giorno mi chiedono :” Leggiamo?”. Perché l’uomo è da sempre un essere narrante e da lì dobbiamo ripartire per ridare senso al nostro modo di affrontare lettura e letteratura. Trovare parole. Ascoltare parole. Usarle sul quaderno per raccontare di sé. Produrne di nuove per interpretare il mondo dal tuo punto di vista. Maneggiarle con cura. Imparare ad usarle per non far male e non farsi far male dalle parole degli altri.

Grazie a Gabriele che ha scritto questo libro per noi di seconda B meccanici necessario.

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La fatica di scrivere

Scrivere è faticoso. Molto faticoso. Non per me, ma per i miei studenti. Il pensare su carta comporta sempre una presa di posizione prima, nei confronti del mondo e di te stesso.

Quando nonostante gli attivatori, gli albi , gli inviti, i mentor text letti e riletti mi trovo D. Che dice:” Non c’è la faccio, non sono in grado, non sono capace” mi chiedo dove io abbia sbagliato.

È un errore tenere così tanto alla scrittura?

È un errore pensare che se non sai scrivere, ti mancherà sempre un pezzo, uno strumento, un potere nella vita?

Io non lo so. So che credo nelle parole e che sia quelle che leggo che quelle che scrivo sono una forma di empowerment della mia persona. Non posso negarlo ai miei alunni. Non devo. Lo stato mi paga per questo: insegnare a leggere e scrivere.

Ma cosa fare con chi guarda il foglio bianco, tira su il cappuccio della felpa e poi china la testa sul banco? Cosa fare?

Non lo so. Non ho le soluzioni. Occorre accettare che una parte di loro non scriva né scriverà mai. Verissimo.

Elena mi dice sempre: non siamo Dio, non li salvi tutti.

E poi? Mi arrendo così? Rinuncio?

Mai stata quel tipo di persona o docente. Per ora, ho questa piccola strategia: vado vicino e sfioro la spalla. Scriverai domani. Oppure dico: dimmi cosa vorresti dire e scrivo io, per ora. Oppure li lascio disegnare la loro storia, fare schemi, fumetti e scritte. A volte tutto magicamente confluisce in un miracolo. Magicamente. Perché io non mi riconosco nessun merito . Come in questa poesia di Andre, oggi rapper famoso, che dopo una lunga lotta di mesi a colpi di sguardi cattivi e parolacce mi ha consegnato questo :

Vengo da dove l’ascensore è rotto, sempre, per 12 mesi all’anno.

Vengo dalle case popolari dove il cielo è sempre buio.

Vengo dalle bocciature gli anni persi a scuola.

Vengo dai treni con i senegalesi senza biglietto.

Vengo dalla strada dalla periferia.

Vengo da mia madre dalla sua forza.

Vengo dai portafogli senza denaro.

Vengo dall’acqua benedetta della chiesa dove sono cresciuto.

Vengo dai vicoli di Genova dalle vie strette e buie.

Vengo dal 24 luglio 1999, l’anno in cui sono nato.

Vengo dai piatti dei miei la cucina del mio paese.

Vengo dalle fughe stancanti dalle guardie.

Vengo da una infanzia difficile

di traslochi e di fatica.

E da allora l’ho amato, per sempre.

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Taccuino?

Sono da tanto tempo una IWT. E una sostenitrice del taccuino da sempre. Io ne ho sempre avuti di miei anche prima, in tempi non sospetti. Quando insegnavo alle medie era per me un imprescindibile strumento di lavoro. Ma.

Ma all’istituto professionale dove lavoro ora io NON lo uso. Noi non lo usiamo. É stato impossibile e più ci rifletto più sono convinta di aver fatto bene. Non avremmo potuto gestirlo come va gestito. Non avrei potuto curarlo come mi sarebbe piaciuto e ho sempre fatto. Sarebbe stata un’occasione sprecata.

Il taccuino é il luogo in cui osservare il mondo. Uno strumento che introduce lentezza. Lentezza nello scorrere veloce del tempo, nel dare spazio al pensiero su carta, nello stimolare li studente ad annotare da scrittore sulle letture. É il luogo dove si ripongono semi di lavori futuri, territori che vanno accuditi e annaffiati. I miei studenti non possono farlo. L’ho capito dopo la prima settimana.

Se non sai perché sei nel mondo e “dove sei girato”, un taccuino non ti aiuta, anzi. Pretenderlo sarebbe stato infliggere loro l’ennesimo ” compito” scolastico mal sopportato e non svolto. Sarebbe diventato presto carta straccia dentro al cestino in classe, dove spesso finiscono le mie fotocopie o i miei materiali. Il taccuino esige un ordine anche mentale. L’ordine non si può imporre. Si deve insegnare nel tempo forse. Io non me la sono sentita. Vigliaccamente mi sono detta che non potevo farcela, e ho rinunciato. Piuttosto che sprecare tempo per costruire un oggetto così prezioso ma incomprensibile ai miei studenti che é già molto se raggiungono la scuola alle otto e entrano dal portone, ho rinunciato.

Ma. Ma abbiamo un quaderno. Il quaderno per eccellenza. Il quaderno della prof. Minuto. Su quel quaderno c’è tutto. C’è storia non separata dalla lettura e dalla scrittura, ci sono gli attivatori, ci sono i territori, ci sono i quick write, le citazioni. Fino a poco tempo fa c’erano anche espressioni di matematica ed esercizi di inglese. É da poco tempo che ho ottenuto che il quaderno sia uno solo, per noi. Molti ancora lo perdono. Molti non lo hanno nemmeno comprato. L’ho portato io. Come la pinzatrice, le forbici, la colla, i pennarelli e ovviamente le penne. Però ci scrivono ogni giorno.

Ogni giorno, come oggi, incolliamo schemi di mini lesson, ci attiviamo per metterci alla prova, scriviamo dal nostro leggere. Ogni giorno condividiamo negli ultimi 5 minuti i nostri lavori sulle tecniche apprese, sugli esperimenti fatti. I ragazzi crescono. Crescono e capiscono piano, piano. Non ho ritirato con costanza il quaderno / taccuino. Ma ne ho guardati tanti. A volte emozionandomi a volte procurandomi nervosi memorabili. I miei studenti sono capaci anche di questo. Sono scrittori a loro insaputa, lettori profondi ma sprovveduti, apprendisti del mondo come della meccanica da officina.

Sono soddisfatta della mia scelta. Imporre non é il mio stile e non avrebbe portato risultati. I quaderni della seconda sono sotto mia custodia in sala docenti, accuditi amorevolmente da due volontari. Quelli delle altre classi dimorano negli zaini, quando ci sono. Si materializzano all’occorrenza e sono pieni di scarabocchi e disegni a margine. Tipo indovinello veronese, diciamo. Dai contenuti un po’ diversi, meno agresti, ma molto più realistici. Sono tutti maschi. Che posso pretendere?

Li amo lo stesso, perché sono così.

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